PICCOLO MONTECRISTO



Su per quella salitella che allontanava il cortile dalla vista del balcone della nostra cucina, verso Via Giacomo Coppola, non so per quale motivo, io e mia madre scendevamo. Ero bambino e un uomo, seduto sul muretto, si divertiva ad osservarci mentre fumava con la bocca chiusa.
Non ricordo se ne parlai con lui o con mia madre, se cioè mi avvicinai a lui chiedendo lumi su come facesse a far uscire il fumo dal naso, o chiedendo a mia madre ugualmente.
Non ricordo nemmeno se, una volta guadagnata la base della salita, mi ero fatto distrarre da altre facezie o se fossi a casa. Fatto sta che mia madre mi riferì che non dovevo fare certe osservazioni, perché lo sconosciuto l’aveva avvicinata complimentandosi per un figlio che, testuale, non si faceva li cazzi sui.
Questi erano gli anni settanta: io non ci posso fare nulla, vengo da lì.

Mia madre mi faceva il bagno e, a suo modo, mi plasmava. “Non comportarti male perché tua sorella potrebbe imparare da te” questa deve averla detta anche a mio padre, ignorando di vivere in una città di milioni di persone. “Non occuparti mai di politica” ovvia conclusione della cronaca degli anni di piombo.
La sensazione di vuoto che ti si chiude addosso era parallela al deserto concettuale. La simca in moto passava la lingua da una guancia all’altra, c’erano caramelle rettangolari in questa plastica rossa che pareva colorarle, e che scartocciavi per stupirti del cangiamento. La tv era a tubo catodico, in bianco e nero, di un certo albume d’uovo sodo nell’alchermes, col maniglione cromato che era la sua bellezza, i pioli che premevi per selezionare il canale memorizzato, e che giravi per cambiare canale. Mio padre dirà per tutta la vita “gira” – oddio lo sento ancora adesso, con quel tono disgustato dalla pubblicità opprimente o da una trasmissione che gli uccideva l’attenzione.

Western e tribune politiche, che fuggivo leggendo, o guardando gli altrettanto rabbiosi mecha. E quel luglio a Cattolica, festoso di sensi ridestati. Niente al mondo è californiano come la California e, appunto, la Romagna. Ed è commovente che sia così. Sembra buffo, ma la Romagna è precisamente la California, è al termine del viaggio, al termine dell’anno scolastico, è forse anche al termine della vita stessa, come premio finale, liberazione, festa d’amici, riconciliazione con i fondamentali ancestrali.
La stessa lingua, ma un altro pianeta. Le tette delle tettesche. Il bambino affogato blu sulla spiaggia con la folla che gli si acciambellava intorno, eclissandogli il sole e respirandone la decomposizione da blocco intestinale. Io che non voglio imparare a nuotare. Io che vado e vengo da solo fino a Misano perché il medico aveva detto che i piedi piatti vanno curati con la sabbia e con gli scogli. Il sangue dal naso che a un certo punto non esce più. Il pianto che non c’è più, perché il sale del mare è altro rispetto a qualsiasi stupida causa emotiva.

La sensazione della sabbia, dell’odore del mare, tutto quel sole, il caldo insopportabile delle umidissime notti, le lasagne, gli spiedi di pesce che ancora mangiavo da Augusto. Vacanza di senso dalla mancanza di senso della borgata romana ancora in costruzione intellettuale nella mia mente. Ecco.
Le architetture culturali nella mia mente non sono quelle di un centro storico. Sono più distese, più a misura d’auto, più da trasporti all’ingrosso. Si stipano meglio, serve meno attenzione, puoi respirare perché non ti definiscono totalmente.

A me gli anni settanta hanno consegnato questo. L’apprensione dei miei genitori era forse l’istinto più profondo da imitare, da ripercorrere, per via di tutta una serie di fattori, perché metter su famiglia è una scommessa ma senza l’elemento scherzoso, perché il genitore si irregimenta mentre ti irregimenta, perché entrambi venivano da altrove, sradicati, esiliati ma al centro del tutto, più urbani (spiace ma è così) dei parenti, ma non abbastanza, e diversamente. L’apprensione per un mondo che evolveva, loro che erano bambini delle periferie dell’ultimo ottocento, del piccolo mondo antico. E la enorme violenza di illusi politici per strada, con storie anche topograficamente vicine. Il tuttocittà, lo stradario della SIP, sarà la raffigurazione pittorica del telegiornale: via Gradoli? Qui!

Io non so dire quando precisamente mi sono infilato negli anni Ottanta. Dev’essere stato tra Spagna ’82 e la scuola media, perché la scuola elementare era ancora roba da Fiat 131 e di Lancia Trevi in casi fortunatissimi di compagni di scuola ricchi. Gli anni Ottanta si potrebbero chiamare il decennio breve del secolo breve.

Ad ogni modo, quando passo per il cortile, per prendere la posta che ancora arriva, di tutti i ricordi, e sono una marea oceanica, quello del sadico nonché deficiente che fuma dal naso ha un posto particolare nell’infinita galleria di rancori. È praticamente al centro della spirale, o del labirinto di pensieri. Certo, manca l’identikit appeso al muro, nel suo caso. Però chissà che un giorno qualcuno non inventi una stampante della memoria, e qualcun altro, con elettrodi da EEG, non riesca a consegnarmi un volto. Che, lo so già, deve necessariamente essere quello di una faccia da schiaffi multipli.

(LM)

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