Il target…

A volte, nei film d’azione americani, e/o nei loro b-movie, c’è una piccola battuta, un particolare insignificante, che fa capire il target adolescenziale a cui quelle pellicole si rivolgono.

Accade lo stesso con l’esercito USA. Occorre fare una premessa.

Gli USA passano per avere le forze armate più forti del mondo, ma allo stesso tempo odiano avere morti sul campo. Perché?

Perché, storicamente, gli USA sono 330 milioni di ammutinati, disertori, esuli, scappati di casa, criminali, latitanti, renitenti alla leva, sbandati. E loro discendenti, spesso anarcoidi.

A tutti costoro, viene data un’idea di patria quale terra di libertà DA e DI, difesa da due insormontabili fossati oceanici, un vallo adrianeo o grande muraglia al confine col Messico e un altro confine con una nazione irrisolta sui cui pochi abitanti gli americani amano raccontare barzellette, esattamente come nei loro film il villain è di solito europeo e gira spesso in Mercedes.

Insomma, da nessun lato la vendetta inseguirà un americano. Gli israeliani vorrebbero godere della stessa impunità, ma la loro situazione è, per loro scelta, esattamente opposta.

La comunicazione propagandistica USA è un tutt’uno con Hollywood, almeno a uno sguardo esterno, al di qua dell’oceano, o anche nella grande provincia americana, quella in cui Washington pesca la propria carne da cannone e che non a caso vota il pacifismo trumpiano, stanca dei continui lavaggi del cervello e dell’emorragia di giovani che nutrono l’immigrazione interna verso le due coste, notoriamente liberal (e guerrafondaie, e piene di imboscati).

Tant’è che la retorica anti nativi americani, altrimenti nota come genere western, subendo la contestazione sessanta anni fa si è trasformata nella retorica del reduce di guerra, e di quanto sia onorevole ricordare i caduti americani per esempio nel Vietnam, mentre si sorvola sui milioni di morti vietnamiti proprio esattamente come per la riduzione cinematografica delle Guerre Indiane.

Con questa necessaria introduzione, è quindi facilmente intuibile perché sia così ricca la “numismatica” delle medaglie americane. Siamo nei paraggi di quel passo dell’Apocalisse in cui si dice che agli affamati di giustizia, ossia agli innocenti, verrà data una veste di bianco brillante. Le medaglie agiscono come consolamentum: tuo figlio/marito/padre era un bravo americano (ossia un vile disertore o suo discendente) ma, vedi, è stato sfortunato. Perché alla fine è morto come un abitante qualsiasi dei continenti da cui lui o un suo avo è scappato.

Per bilanciare, ti diamo alla sua memoria una medaglia particolare, o addirittura rara, o unica. Alla sfiga di uno che non voleva proprio fare la fine che ha fatto, ammantando la propria inettitudine di paroloni come libertà o ricerca della felicità, controbilanciamo con la fortuna di un riconoscimento che la nazione (?) americana fa. Un riconoscimento che ti avvicina a quella reggia di fatto monarchica che è la Casa Bianca. Una bella stretta di mano del Presidente che, nel caso di Dabliù, s’è dimostrato il re degli imbucati.

Ecco: il target, ragionato sociologicamente sulla storia USA, viene confermato da come il governo americano si comporta con reduci, veterani e caduti. I caduti vanno assolutamente celebrati, i reduci e i veterani, se non di famiglia ricca (googlare a tal proposito “Nepotism USA”) non si sa esattamente cosa vogliano, visto che sono ancora vivi. I primi, sfortunati, devono rammentare agli altri la fortuna di averla scampata. Ancora una volta.

Si accontentino.

(LM)

Lascia un commento